ARTICOLO PUBBLICATO SUL CORRIERE DELLA SERA DEL 10 APRILE 2021
Negli scorsi giorni leggevo l’editoriale di Saviano nelle pagine del vostro giornale. Parlava di pandemia, di sofferenza, di periferia. Di ragazzi che sono stati lasciati a loro stessi, costantemente giudicati e utilizzati come capri espiatori per qualsiasi problematica sociale.
Dalle resse nelle strade, all’incapacità di critica, dall’utilizzo smodato dei social, alla rassegnazione sociale. La colpa è sempre loro: dei giovani che abitano le periferie.
Eppure quella dei ventenni è la generazione che è annullata da ogni dibattito politico: troppo giovani per essere ascoltati, troppo grandi per dover investire risorse per il loro futuro.
Il grido che parte da Scampia e da Banlieue è lo stesso che parte dai nostri quartieri, dal San Paolo di Bari, da Tamburi di Taranto, da Torrealta di Cosenza.
Le periferie sono le zone urbanistiche più giovani delle nostre città, e quasi sempre quelle che racchiudono il più grande disagio sociale. Come diceva Saviano, quando non si ha nulla da perdere il capitale della paura diventa l’unico capitale possibile. Le periferie fanno paura, è un dato di fatto. Ma non è più la paura dettata dagli episodi di criminalità che trovavano facile palcoscenico nelle vie più impervie dei quartieri residenziali. Le periferie fanno oggi paura perché sono i luoghi in cui può davvero avvenire la rivoluzione sociale e culturale della nostra società, quella rivoluzione che può cambiare e sovvertire l’ordine delle cose, lo status quo, l’equilibrio nella gestione del potere.
Proprio coloro che oggi sono senza prospettiva e senza lavoro saranno il pilastro della nostra futura società. Si proprio loro, saranno il pilastro produttivo del nostro Paese.
L’Italia riparta dalle periferie. Ascolti la voce di quei giovani che lì hanno studiato, superando mille difficoltà e pregiudizi. E anche di quei giovani che, invece, hanno abbandonato gli studi e quotidianamente sostano nei vicoli e nei porticati più lontani. È nella contaminazione di queste voci che è racchiuso il vero potenziale. È in quelle abitazioni in cui un tempo c’erano famiglie monoreddito che hanno fatto sforzi per far studiare i propri ragazzi, che vi è la chiave di volta per ritrovarci come società. Ritrovare quell’ideale civile di responsabilità, antipodale rispetto all’egocentrismo degli ultimi decenni, che vede la fragilità e la vulnerabilità non come qualcosa da “buttare via”, ma qualcosa di cui prendersi cura, in quanto essenza di un’identità più grande e matura.
E basta alle politiche pensate dall’alto verso il basso. Qui non servono paroloni, è finito il tempo in cui dalle periferie si alzava il grido esasperato di richiesta di aiuto. Si ascolti, invece, la voglia di cambiare, la voglia di migliorare, la voglia di riscatto che nei quartieri periferici è presente negli occhi di quei ragazzi così tanto giudicati. È solo questione di tempo, la rivoluzione dal basso sta già avvenendo, il suo richiamo è evidente, anche se oggi può far comodo non ascoltare.
L’Italia riparta dalle periferie. Le periferie sono pronte a fare la loro parte.